In principio era la patata

Cosa c’entra l’archeologia con il gustoso tubero? Al forno o in forma di gnocchi, alle patate non diciamo mai di no neanche noi archeologi, ma se sei al Bostel di Rotzo a scavare, è impossibile non averci a che fare.

Verso la fine dell’estate, periodo ottimale per le campagne di scavo, avviene la raccolta delle suddette; spesso capita di trovarsi nel settore di scavo e sentire distintamente trattori e relativi rimorchi muoversi lungo le capezzagne, carichi e chiassosi.

Poi, fondamentale: la scoperta del villaggio protostorico del Bostel di Rotzo è da attribuirsi ad Agostino dal Pozzo, l’Abate che per primo introdusse la coltura della patata in Altopiano, proprio a partire dai campi che oggi pertengono al Percorso archeologico.

L’Abate Dal Pozzo possedeva “un poderetto di forse cinque in sei campi ridotti a coltura” al Bostel, difficile da lavorare poiché “l’aratro intoppava tratto tratto in pietre per lo più mobili e coperte”. Per migliorarne le caratteristiche decise quindi di eliminare queste pietre facendo “roncare da capo a fondo alla profondità d’un piede e mezzo. Si accorsero tosto gli operai, che quelle pietre spettavano a dei muri di case demolite, e poi interrate. Inoltrandosi con il lavoro discoprirono in tutta quella estensione da 600 e più casette, come mi assicurò il Capomaestro di essi.”.

Così riportò l’Abate nelle sue “Memorie Istoriche dei Sette Comuni vicentini”, edite nel 1781. Dopo estese ricerche, possiamo assicurarvi che le 600 casette rinvenute dal Capomaestro sono decisamente troppe per i circa 3 ettari che costituiscono l’estensione attestata del villaggio protostorico.

Le Memorie dell’Abate attirarono l’attenzione di Giovanni Pellegrini, Sovrintendente ai Musei e scavi archeologici del Veneto, che nel 1912 affidò all’archeologo Alfonso Alfonsi la conduzione della prima campagna di scavo fatta sul Bostel. Alfonsi mise in luce delle strutture che interpretò come magazzini e la cosiddetta Sala del Trono, un ambiente molto ampio posto alla sommità del villaggio dove, probabilmente, avvenivano gli scambi commerciali più importanti.

Nel 1969 seguirono gli scavi di Giovanni Battista Frescura: egli scoprì i resti di una capanna a pianta quadrata, detta “casetta A”, semi-interrata e abbandonata a seguito di un incendio. Le tracce di incendio ed abbandono riscontrate durante lo scavo delle strutture abitative, fecero ipotizzare allo storico vicentino Giovanni Mantese che la distruzione del villaggio fosse avvenuta durante un’azione bellica romana nel II secolo a.C..

Dal 1993 il Bostel di Rotzo è tornato ad essere indagato da parte dell’Università degli studi di Padova che nel corso degli anni ha aperto tre nuovi settori: il C1/C2, due strutture adiacenti di cui una destinata alla produzione ceramica; il settore D, ancora in corso di indagine ma che finora ha restituito la scala d’ingresso a una struttura abitativa; il settore E, in cui attraverso lo scavo di una trincea della Prima Guerra Mondiale è stato possibile rinvenire piani d’uso appartenenti al villaggio protostorico.

È proprio da qui che comincia la storia del Progetto Stempa, col suo approccio innovativo e tecnologico ad uno dei paesaggi più affascinanti ed antichi dell’Altopiano di Asiago.

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