Archeologi da Tastiera e dove trovarli

Chi sono gli Archeologi da Tastiera e qual è il loro habitat?

Gli esemplari di questa specie sono tutti dotati di una grossa sacca mobile – generalmente localizzata sulla schiena – all’interno della quale custodiscono un’estensione del loro sistema nervoso centrale, il cosiddetto “personal computer”, anche noto come “laptop”; tale struttura può avere formati, dimensioni, prestazioni e colori assai diversificati da individuo a individuo, generalmente sulla base del ruolo ricoperto nella gerarchia sociale (da niubbo a pro). Quando il “computer portatile” è inutilizzato, gli Archeologi da Tastiera assumono comportamenti assimilabili a quelli degli altri esponenti del medesimo genere, tra cui si annoverano: scavare buche, ricomporre cocci di vasi rotti, avere il chiodo fisso del passato; tuttavia, quando il “computer portatile” è attivo, gli individui si estraniano dall’ambiente circostante e iniziano a parlare tramite un linguaggio in codice che non è ancora stato del tutto compreso. Qui di seguito vi proponiamo un piccolo vademecum che vi consentirà di interagire senza pericolo con un Archeologo da Tastiera, in caso ne doveste incontrare uno durante i vostri viaggi. Inoltre, troverete informazioni dettagliate riguardo alla tipologia di strumenti e di dati che sono stati alla base della progettazione di uno dei pannelli della mostra “indagini X immagini”, visitabile fino al 1° di giugno a Palazzo Liviano (Padova). Perché non si può conoscere un Archeologo da Tastiera senza conoscere il telerilevamento, detto anche dai colleghi anglofoni remote sensing…

I primi approcci al remote sensing in archeologia risalgono agli anni ’20 del secolo scorso, sulla scia della ricerca in ambito militare che aveva avuto un intenso sviluppo nel corso della Prima Guerra Mondiale. Il termine oggi è comunemente usato per descrivere la scienza di identificare, osservare e misurare un oggetto senza entrare in diretto contatto con esso. Include l’individuazione e misura della radiazione di diverse lunghezze d’onda riflesse o emesse da oggetti o materiali distanti, per mezzo delle quali possano essere identificati per classe/tipologia, sostanza e distribuzione spaziale. La fase iniziale dell’intero processo è l’acquisizione, che necessita di un dispositivo sensibile ad un segnale emesso o riflesso dall’oggetto che s’intende visualizzare, elaborare, analizzare o documentare. Quando incontra un oggetto, l’energia elettromagnetica può interagire con il target (l’elemento colpito) in riflessione, in assorbimento o in trasmissione, in proporzioni che dipendono dalle caratteristiche fisiche dell’oggetto, ma anche dalle caratteristiche della radiazione stessa. Sistemi come la fotografia, l’infrarosso termico e il multispettrale rilevano variazioni elettromagnetiche naturalmente emesse (nel caso dell’energia termica) o riflesse (nel caso della luce solare) da oggetti e superfici, sono pertanto detti sistemi di rilevamento passivi. Altri dispositivi raccolgono invece la risposta a un segnale che essi stessi inviano alla superficie investigata. Sono detti sistemi di rilevamento attivi, in quanto contengono la sorgente dell’energia che viene rilevata e non necessitano, pertanto, della radiazione solare. I due sistemi di questo tipo più utilizzati sono quelli lidar e radar. Nessun sensore è in grado di recepire qualunque tipo di informazione sulla realtà che si intende esplorare: una volta definito lo scopo dell’indagine, è dunque fondamentale stabilire la tecnica più idonea. Un grande numero di elementi archeologici a terra (e, con l’ausilio di opportuni sensori, anche parzialmente sottoterra) può essere identificato, mappato e studiato in base alle proprie caratteristiche spettrali, che variano ad esempio sulla base della quantità di clorofilla nelle piante, della conformazione della superficie terrestre, della tessitura del suolo, dell’umidità, della concentrazione di materiale organico o di ossidi metallici del terreno. Le tipologie di tracce individuabili sono infatti definite in relazione alla composizione e alle condizioni del suolo, o ancora ai cosiddetti “mediatori di superficie” (come coltivazioni, flora spontanea, neve) la cui distribuzione e le cui caratteristiche possono permettere all’osservatore la presenza di strutture archeologiche sepolte a bassa e media profondità. Le tracce al suolo visibili sulla nuda terra sono dette soilmarks, le anomalie nella copertura vegetale possono essere definite cropmarks nel caso di coltivazioni o anche grassmarks in presenza di distese erbose. Altri esempi di tipologie di tracce sono i dampmarks (che dipendono dalla concentrazione idrica nel terreno) o gli snowmarks (anomalie rivelate o accentuate dal manto nevoso). Tramite l’osservazione si cerca di distinguere, all’interno della scena, elementi spaziali (features) con caratteristiche abbastanza omogenee, ma distintive rispetto al loro background. Gli elementi caratterizzanti generalmente presi in considerazione sono: tonalità (la luminosità relativa o il colore di un oggetto), tessitura (la disposizione e frequenza delle variazioni tonali), forma, dimensioni, ombre (rivelano il profilo e l’altezza relativa dell’oggetto), pattern e associazioni spaziali (la disposizione e la relazione tra oggetti nell’area d’indagine) (Lillesand et alii, 2008). In molti casi features frammentarie e di difficile leggibilità acquisiscono coerenza solo mediante più riprese reiterate nel tempo, che ne rivelano identità e funzione in rapporto ai cambiamenti climatici e alle attività di sfruttamento del suolo (Cowley, 2015). I migliori risultati si hanno in genere nelle applicazioni con approccio “multiosservativo”, ad esempio rilevando da distanze diverse (multistage), in momenti diversi (multitemporale), o ancora a lunghezze d’onda diverse (multispettrale).

Le caratteristiche di una scena osservabili tramite remote sensing sono estremamente eterogenee e necessitano, in ogni studio, di essere messe a confronto con i risultati dell’indagine sul campo. Per tali ragioni è indispensabile disporre di una piattaforma comune in cui poter collocare, analizzare e comparare ogni dato spaziale raccolto. I Sistemi Informativi Geografici (GIS) consistono in pacchetti software in cui è possibile raccogliere e gestire questi dati all’interno di database manipolabili e interrogabili, che documentano attività ed eventi definiti nello spazio secondo punti, linee o aree (Duecker, 1979). Il primo sistema informativo geografico è nato nei primi anni ’60; a partire dagli anni ’90 la proliferazione di software commerciali ha reso il GIS uno strumento metodologico standard nella ricerca archeologica. Una particolare attenzione è stata rivolta, negli ultimi anni, alle analisi di visibilità e gli studi sulla percezione del paesaggio archeologico e del paleoambiente. In area mediterranea, dove lo sviluppo della tecnologia GIS è stato più tardivo rispetto al Nord America e al Regno Unito, si rileva uno spiccato interesse per la ricostruzione diacronica, anche molto dettagliata, del paesaggio archeologico con diverse applicazioni intra-sito; questa sensibilità verso azioni di tutela e di simulazione paleambientale si riscontra particolarmente nei paesi, come l’Italia, dove la densità antropica antica è molto elevata e quindi dov’è più sentito il problema del rischio archeologico (Forte, 2002). Una delle maggiori doti del GIS come strumento di supporto decisionale sta nella sua capacità di combinare conoscenze scientifiche generali (regole o ruleset) con informazioni specifiche, rendendole valide risorse in senso pratico. Può inoltre fungere da inventario meccanizzato di caratteristiche e strutture, rivelare informazioni geografiche altrimenti invisibili o ancora eseguire operazioni su dati geografici che manualmente risulterebbero troppo dispendiose o inaccurate. Per codificare delle informazioni in un database digitalizzato esistono due metodi: il metodo raster e il metodo vettoriale. I dati raster sono il prodotto della scansione dello spazio in una matrice di celle rettangolari (normalmente quadrate); qualsiasi variazione è espressa assegnando proprietà ed attributi a queste celle, che in quanto picture elements (elementi dell’immagine) sono spesso chiamate, per abbreviazione, pixel. I più comuni dati raster sono quelli rilevati da piattaforme satellitari o aeree. Le rappresentazioni vettoriali, invece, sono costituite da insiemi di punti (vertici) collegati fra loro da linee rette (una sequenza di rette è detta polyline), definendo così specifiche aree, i poligoni (Longley et alii, 2001). I dati trattati nella progettazione GIS possono essere resi fruibili attraverso processi d’interrogazione (query), di tipo gerarchico e logico, e di elaborazione. Il sistema risponde operando molteplici combinazioni di immagini (cartografia, foto, scansioni) con archivi alfanumerici, e sulla base dei campi (field) nel database ad interrogazioni sia “orizzontali” (per categorie) che “verticali” (per unità spaziali). Le analisi spaziali consentono di elaborare più dati georeferenziati in base ai differenti tematismi e alle tipologie d’informazioni rappresentate.

Il digital image processing comporta l’elaborazione (manipolazione ed interpretazione) di immagini digitali tramite supporto computerizzato. Rientrano in questa categoria preprocessing (operazioni di rettificazione, calibrazione o restauro per ottenere una rappresentazione dello spazio rilevato – scena – il più fedele possibile), image enhancement (miglioramento, potenziamento dell’immagine ai fini interpretativi o in funzione di stage di elaborazione più avanzati), classificazione (in cui l’immagine viene analizzata mediante tecniche quantitative anziché attraverso l’osservazione diretta) e data fusion (l’integrazione di dati e informazioni da diverse sorgenti). Una procedura di image processing che recentemente ha guadagnato una certa attenzione in ambito archeologico è l’analisi multispettrale, ovvero l’analisi di dati rilevati con sensori in grado di registrare la quantità di energia riflessa da oggetti sulla superficie terrestre in diverse lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico (che rientrano generalmente nella porzione che comprende la luce visibile e l’infrarosso). Le immagini così restituite risultano composte da più bande, che possono essere combinate e manipolate in modo da poterne estrarre informazioni territoriali. Acquistando un dato multispettrale viene di norma fornita anche un’immagine pancromatica, ovvero un’immagine ad alta risoluzione spaziale (per cui s’intende l’area della scena catturata in un pixel, che determina il livello di dettaglio rappresentato) acquisita combinando in un solo canale la risposta spettrale di più bande differenti. Attraverso una tecnica di data fusion detta pansharpening (abbreviazione di panchromatic sharpening) è possibile combinare l’informazione di tipo spettrale del dato multibanda con l’informazione di tipo spaziale del dato pancromatico. Esistono numerosi algoritmi applicabili per il pansharpening, tra i più conosciuti l’IHS (Intensity-Hue-Saturation), la trasformazione di Brovey e l’ortogonalizazione di Graham-Shmidt (Amro et alii, 2011). Non c’è una prassi univoca per la scelta dell’algoritmo, che deve essere selezionato in base ad una valutazione della qualità del dato, della scena e del tipo di informazione che si intende ottenere. I dati risultanti la procedura di pansharpening possono essere studiati mediante l’analisi della risposta spettrale o ulteriormente elaborate con l’implementazione di trattamenti specifici; ne sono un esempio la Principal Component Analysis, il Decorrelation Stretch e i Vegetation Indices.

La Principal Component Analysis (PCA) è un metodo statistico-combinatorio idoneo a ridurre la ridondanza in un set di dati, in altre parole il suo scopo è quello di comprimere tutte le informazioni contenute nell’immagine originale in un nuovo dataset di altrettante bande, corrispondenti alle cosiddette componenti principali. I valori corrispondenti sono quantità statistiche note come autovettori che derivano da matrici di varianza/ covarianza dell’immagine di input. Le immagini risultanti possono essere analizzate singolarmente oppure combinate in tricromia RGB. Si ricorre frequentemente alla PCA nell’analisi multispettrale e più in generale nell’ambito del remote sensing poiché permette di visualizzare contemporaneamente più tracce potenzialmente informative ai fini dell’indagine.

Il Decorrelation Stretch (o D-Stretch) è un algoritmo generato come estensione della Principal Component Analysis. Nell’ambito dell’elaborazione di immagini digitali è definito un algoritmo di color enhancement poiché modifica l’immagine esasperandone le informazioni minormente correlate in termini cromatici; è applicato ad uno spazio-immagine trasformato e solo al termine del processo operativo i risultati vengono nuovamente convertiti in RGB per la visualizzazione, nella quale appaiono solo parzialmente alterati i valori di tonalità e intensità.

Un’altra strategia applicabile alle immagini multispettrali prevede il trattamento delle singole bande come fattori di espressioni algebriche, formule empirico-matematiche concepite per sfruttare ed esaltare il contrasto tra differenti regioni dello spettro. La categoria di operazioni che in tal senso ha conosciuto un maggiore sviluppo è quella dei cosiddetti indici vegetazionali (Vegetation Indices, VIs), modelli digitali in grado di rappresentare quantitativamente proprietà della flora che possono essere critiche per la comprensione del sottosuolo e nel nostro caso per l’individuazione di strutture (o infrastrutture) archeologiche sepolte (De Guio, 2015). Ad oggi si conta la pubblicazione di oltre 50 indici vegetazionali, focalizzati su varie problematiche legate a fattori sia ambientali che strumentali. Il più popolare è il Normalized Difference Vegetation Index o NDVI, un indicatore standard che consente di stimare, nella visualizzazione dell’immagine generata, la biomassa locale, ovvero la quantità di sostanza costituita da organismi viventi (in questo caso vegetali) in rapporto alla superficie. L’algoritmo sfrutta il contrasto tra due bande del dataset multispettrale, quelle del rosso e del vicino infrarosso, sensibili rispettivamente all’assorbimento della radiazione solare della clorofilla e alla riflettanza della struttura della pianta; esistono tuttavia diverse varianti della formula, come ad esempio il Green NDVI, che include nell’operazione la banda del verde (Gitelson, Merzlyak, 1998).

Se l’utilizzo di remote sensing e image processing ha ormai preso piede (con risultati in molti casi rilevanti) anche in archeologia, si percepisce ancora un certo ritardo rispetto ad altri settori scientifici nella sperimentazione di strategie all’avanguardia e nella mancanza di organicità nelle prassi metodologiche. La crescente diffusione di dati telerilevati tramite tecnologie sempre più avanzate e la conseguente disponibilità di strumenti e dati a costi accessibili consentirà, auspicabilmente, di mettere a punto analisi ancora più performanti anche nello studio degli scenari del passato.

Laura Burigana

Bibliografia

Amro, Israa & Mateos, Javier & Vega, Miguel & Molina, Rafael & Katsaggelos, Aggelos, 2011, A survey of classical methods and new trends in pansharpening of multispectral images, in EURASIP Journal on Advances in Signal Processing, DOI: 10.1186/1687-6180-2011-79.

Cowley D.C., 2015, Aerial phptpgraphs and aerial reconnaissance for landscape studies, in Chavarria Arnau A., Reynolds A. (a cura di), Detecting and understanding historical landscapes, Mantova, pp.37-56.

De Guio A., 2015, Cropping for a better future. Vegetation indices in archaeology, in Chavarria Arnau A., Reynolds A. (a cura di), Detecting and understanding historical landscapes, Mantova.

Duecker K., 1979, Land Resource Information Systems: a Review of Fifteen Years’ Experience, in Geoprocessing, vol.1, n.2, pp.105-128.

Forte M., 2002, I Sistemi Informativi Geografici in Archeologia, MondoGIS, pp. 1-110.

Gitelson, A., M. Merzlyak, 1998, Remote Sensing of Chlorophyll Concentration in Higher Plant Leaves, in Advances in Space Research, n.22, pp. 689-692.

Lillesand T.M., Kiefer R.W., Chipman J.W. 2008, Remote Sensing and image interpretation, Hoboken (NJ – USA).

Longley P.A., Goodchild M.F., Maguire D.J., Rhind Q.W. 2001, Geographic information systems and science, New York.

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