Ciò che più rende unico il lavoro dell’archeologo, è che non bastano due parole per definirlo. Molti altri mestieri invece, per così dire, si “autodefiniscono” o non richiedono ulteriori delucidazioni: architetto, parrucchiere, infermiere, gelataio, autista di autobus.
Un archeologo ha ben presente il lavoro che fa, ma quando deve intrattenere relazioni sociali esterne all’ambiente di lavoro arriva il momento più delicato: essere esaustivi nel definire la propria mansione. Molto spesso, giunti al momento della fatidica domanda, non è sufficiente rispondere semplicemente di essere archeologi.
Sono una persona che trova cose, si potrebbe dire per sdrammatizzare.
«E cos’hai trovato?» è la domanda che più spesso ci si sente ripetere. Dipende. Dipende da quello di cui ci si occupa, di preciso. Purtroppo, manca la consapevolezza comune che porta a identificare, dal punto di vista pratico, quello dell’archeologo come un vero e proprio lavoro. Viene da molti ancora figurata come una semplice passione, senza riconoscere quale sia il suo “posto”, diversamente da quanto succede – per esempio – con il lavoro degli autisti di autobus (contro i quali non nutriamo alcun tipo di risentimento, ci teniamo a specificarlo!).
Insomma, sta a noi far capire che non siamo un branco di perditempo ma che la nostra è a tutti gli effetti una disciplina che affonda le sue più profonde radici nella Ricerca. E, lo dice la natura stessa del termine, la ricerca è necessaria per il bene comune. Di tutti.
Ma torniamo a noi. Senza dubbio un archeologo scava, o lo ha fatto in un periodo della sua vita o durante la sua formazione. Lo scavo archeologico è un’attività che richiede molta pazienza, precisione e che risponde a regole standard applicate con un metodo rigoroso. Tuttavia, l’attività di ricerca di un archeologo, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, non si esaurisce sul campo. Una volta terminato lo scavo vero e proprio l’indagine prosegue, e può farlo seguendo molteplici direzioni.
Una di queste è senza dubbio il laboratorio, il luogo dove tutti coloro che hanno partecipato alla campagna di scavo desiderano lavorare, per avere la possibilità di rispondere alle domande che sono emerse in corso d’opera. Talvolta, se gli spazi risultano idonei, una fase preliminare viene già svolta sul campo. Presso i laboratori di ricerca dell’Università si possono poi osservare con un maggior grado di dettaglio i reperti che sono stati riportati alla luce.
Direttamente dallo scavo, i materiali rinvenuti giungono al laboratorio custoditi in casse e già opportunamente suddivisi a seconda del luogo di rinvenimento e delle diverse unità stratigrafiche (US), ovvero i singoli strati di terreno identificati durante lo scavo archeologico, all’interno di sacchetti o di idonei contenitori. Ogni sacchetto viene identificato da un cartellino, considerabile a tutti gli effetti come una carta d’identità dei reperti che contiene. Sul cartellino sono infatti indicati il sito di provenienza, la data, il settore e il quadrato del ritrovamento.
Una volta aperti i sacchetti (che vanno sempre mantenuti divisi tra di loro, per evitare di confondere i materiali di unità stratigrafiche diverse), i materiali di ogni singolo contenitore vengono suddivisi tra ceramica, ossa, metalli, vetro, ecc. Questo perché, a seconda del tipo di materiale di cui è costituito un reperto, i trattamenti che subirà saranno differenti. Ceramica e ossa vengono lavate utilizzando acqua, spugnette e spazzolini molto morbidi. Se il materiale da pulire è particolarmente delicato o danneggiato, si può anche spazzolare a secco, senz’acqua. I reperti vengono infine posti ad asciugare all’aria, lontani da fonti di calore dirette, sempre suddivisi e dotati di cartellino di riconoscimento. Metalli e vetro, invece, non si lavano mai in acqua per ragioni conservative.
Dopo il lavaggio e l’asciugatura, risultano molto ben visibili tutti i dettagli che non erano apprezzabili quando i reperti erano coperti di terra: eventuali decorazioni sulle ceramiche, tracce di lavorazione sulle ossa o fratture combacianti che permettono una parziale ricostruzione di un manufatto (ad esempio un vaso).
I cosiddetti notevoli, cioè i materiali con un potenziale informativo particolarmente importante, vengono siglati, se possibile re-incollati, fotografati e disegnati. Il disegno archeologico segue delle convenzioni specifiche, a metà strada tra il disegno tecnico e quello artistico. I disegni sono fondamentali, poiché sono la base del lavoro di ricerca e confronto che porta alla determinazione della tipologia e quindi della cronologia del reperto in questione.
I materiali possono anche essere sottoposti ad analisi di dettaglio in collaborazione con esperti di archeometria, che attraverso l’utilizzo di svariate tecniche scientifiche sono in grado di fornire maggiori informazioni sulla tessitura, sulla composizione chimico-mineralogica, sulle tecniche di produzione, sulla provenienza delle materie prime o sulla datazione dei reperti analizzati.
Lo studio dei materiali è una complessa catena operativa, ma è soltanto un ramo di un grande albero che rappresenta, metaforicamente, la multidisciplinarietà dell’archeologia. Questa scienza infatti trae linfa vitale tanto dai testi scritti degli autori antichi, quanto dalle testimonianze materiali che si rinvengono negli scavi (mattoni, ceramiche, ossa di animali, metalli e molto altro), ma come si è visto un importante contributo viene dato anche dalle analisi scientifiche. In questo senso, la ricostruzione virtuale dei reperti in 3 dimensioni tramite l’utilizzo di metodologie e strumenti specifici è un ulteriore elemento innovativo che consente di effettuare misurazioni, comparazioni e calcoli sempre più precisi e accurati. Le informazioni che riusciamo a ricavare vanno poi restituite, nel modo più leggibile possibile, a chiunque lo desideri.
Ci vorrebbero molte più righe a disposizione per elencare tutti quanti i rami e le ulteriori ramificazioni di essi. Se vi state chiedendo le radici che cosa sono… Be’ le stiamo ancora pazientemente cercando!
Margherita Pirani